Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi.

Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi. Autoritarismo maschile e società tardo capitalistica,
Bologna, Guaraldi 1971, traduzione e cura di Lucia Personemi, 247 p.3
Titolo originale: Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex. The Case for Feminist Revolution, William Morrow and Co., New York, 1970.

Quando questo saggio fu pubblicato in Italia pochi erano gli scritti femministi in circolazione. Nel 1970 era stato pubblicato il Manifesto di Rivolta Femminile e Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi e nel ’71 della stessa autrice uscirà La donna clitoridea e la donna vaginale (tutti editi da Rivolta Femminile, uno dei primi gruppi femministi nati a Milano).  Negli stessi anni, i ciclostilati di Lotta Femminista e di vari collettivi giravano nei primi gruppi di donne appena nati in tutta Italia, raccolti nel ’71 da Rosalba Spagnoletti nel volume I movimenti femministi in Italia, edito da Savelli. A parte gli scritti teorici di Carla Lonzi, non condivisi da tutto il neonato movimento femminista, bisogna aspettare   ancora   qualche anno per leggere in Italia testi teorici forti.

Sicuramente questo di Firestone è stato in quegli anni un testo teorico che, pur molto trasgressivo e non pienamente condivisibile, ha sottoposto ad una critica ad ampio spettro la cultura su cui la sinistra si era formata e ha rappresentato Un terreno fertile di confronto e di crescita del movimento nell’elaborazione di un’analisi dei ruoli sessuali e dell’uso politico del corpo, in particolare della sfera sessuale e procreativa. Il marxismo, il freudismo, la pedagogia, la concezione dell’amore e della famiglia, il romanticismo, la storia oscurata dei primi movimenti femministi americani sono i campi su cui l’autrice volge il suo sguardo attento e disincantato. Pur concordando con le critiche mosse a Freud sull’inefficacia della pratica psicoanalitica e sulle scorrette teorie sulla sessualità femminile, la Firestone gli riconosce il merito di avere “afferrato il problema cruciale della vita moderna: la sessualità” (p. 56). I testi di Freud sarebbero da considerare poetici e metaforici più che scientifici: lo stesso complesso di Edipo viene interpretato come conseguenza di un esercizio di potere oppressivo del padre su moglie e figli a lui dipendenti. Con la loro indipendenza, resa possibile dall’eliminazione della famiglia patriarcale e biologica, scomparirebbe anche il complesso di Edipo.

Shulamith Firestone, se da un lato accoglie il metodo dialettico e materialistico di Marx ed Engels, per avere evitato “di cadere nella stagnante visione metafisica” (p. 16), dall’altro non ritiene sufficiente l’analisi economica fondata sulla proprietà dei mezzi di produzione e di riproduzione, perché questa non arriva a spiegare tutto. È possibile, sostiene Firestone, “sviluppare una visione materialistica della storia basata sul sesso” (p. 20). L’unica teorica femminista che con la sua opera, Il secondo sesso, ha fornito negli anni cinquanta un’analisi compiuta e profonda della divisione sessuale della società è stata Simone de Beauvoir. Al di là delle categorie filosofiche di Alterità, Trascendenza e Immanenza, introdotte dalla de Beauvoir, occorre, invece, per Firestone, “sviluppare un’analisi in cui la biologia stessa – la procreazione – sia all’origine del dualismo” (p. 21).

La novità scabrosa di questo testo sta nell’immaginazione utopica di una rivoluzione definitiva nel rapporto tra i sessi attuabile in una società ad industrializzazione avanzata e cibernetica in cui il corpo femminile può essere riscattato dalla sua naturale funzione procreativa dal processo di sviluppo della cultura volto a favore delle donne. Se il femminismo nella sua storia ha sempre criticato negativamente le tecnologie, per la prima volta, con questo saggio, una scrittrice femminista dà un segno positivo alle tecnologie riproduttive con la promessa di liberare le donne dall’oppressione biologica. Questa fiducia, accolta negli anni Settanta, fu poi rifiutata dalle generazioni successive, come giustamente ricorda Rosi Braidotti nell’introduzione al Manifesto cyborg di Donna Haraway[1], in cui la filosofa ricolloca Firestone all’interno del dibattito cyberfemminista.

Secondo Firestone “la cultura è il tentativo da parte dell’uomo di realizzare il concepibile nel possibile”(p. 182). Ma finché la cultura sarà separata, come lo è oggi, tra cultura estetica, tesa a creare un mondo ideale di ordine e armonia, e cultura tecnologica, finalizzata al governo e alla manipolazione della realtà attraverso l’osservazione delle sue leggi in funzione dei progetti dell’uomo, non sarà possibile una rivoluzione culturale.

Essa sarà possibile se si presuppone la fusione della cultura estetica con quella tecnologica (…) proprio come la fusione delle classi sessuali, razziali ed economiche ora divise è il presupposto della rivoluzione rispettivamente sessuale, razziale o economica (p. 186).

Ma così come il fine della rivoluzione non è l’integrazione delle classi, allo stesso modo il fine della rivoluzione culturale è “l’eliminazione della cultura come la conosciamo” (ib.). Da questa asserzione parte l’analisi critica della storia della cultura estetica e tecnologica, dal mondo antico, passando per il Medioevo e il Rinascimento, fino ai nostri giorni, come storia dell’affermarsi dell’arte pura da una parte e della scienza empirica dall’altra privata di intuito e di immaginazione.

La scienza moderna, autonoma dalle altre discipline, non si interroga sugli scopi della ricerca ma va avanti secondo un proprio ritmo del tutto incontrollabile. “Finché l’uomo si occupa solo dei mezzi (…) che portano alla sua realizzazione finale, il dominio della natura, la sua conoscenza, perché non è completa, è pericolosa” (p. 191). Si tratta di una scienza senza anima “che richiede che i suoi praticanti diventino oggettivi, meccanici, iperprecisi” (p. 192), cioè senza emozioni e nettamente divisi tra la vita privata e quella pubblica. La rivoluzione culturale, invece, reintegrerà il Maschile (la tecnologia) con il Femminile (l’estetica) per creare una cultura androgina che supererà tutte le altre facendole esplodere. Scrive Firestone:

Quando il mondo tecnologico maschile potrà produrre nella realtà ciò che il mondo estetico femminile ha anticipato nelle sue visioni, avremo eliminato il bisogno di entrambi” (p. 200).

La scienza empirica può fare molto per liberare le donne e i bambini dall’unità familiare biologica che li ha sempre oppressi. In questo caso, in un mondo il cui equilibrio naturale è distrutto, la tecnologia può stabilire un nuovo equilibrio artificiale, contrapposto a quello naturale che ha da sempre vincolato la libertà delle donne. Si tratta di un programma ecologico rivoluzionario che cerca di rispondere e alle domande di pianificazione sociale e a quelle del femminismo.

…indipendentemente da qualunque istanza morale, soltanto per ragioni pragmatiche – la sopravvivenza – è divenuto necessario liberare l’umanità dalla tirannia della sua biologia (p.201).

Perché, come l’energia atomica, il controllo della fertilità, la riproduzione artificiale, l’automazione, di per sé, sono liberatorie, a meno che non vengano usate impropriamente (p. 205).

Ma se la scienza è andata avanti con la fecondazione in vitro e anche la partenogenesi è dietro l’angolo, la mentalità con cui gli scienziati e la gente comune accolgono queste novità è molto conservatrice, tesa a mantenere gli attuali valori familiari e sessuali. I nuovi metodi di riproduzione fanno così paura che la ricerca viene ostacolata da pregiudizi sessuali a cui non sfuggono neanche le donne del movimento di liberazione. Coraggiosamente Firestone sostiene invece che “La gravidanza è barbarica”, “La gravidanza è la temporanea deformazione dell’individuo nell’interesse della specie” (p. 207). Questo spunto è stato recentemente ripreso e sviluppato da Rosi Braidotti in Madri, mostri e macchine[2]. Ma l’automazione, come il controllo delle nascite, può essere una spada a doppio taglio. Evocando gli effetti alienanti e totalizzanti della tecnocrazia di Orwell in 1984, Firestone ammette che “nella società attuale non c’è dubbio che la macchina possa essere usata – e viene effettivamente usata – per intensificare l’apparato di repressione e per aumentare il potere costituito” (p. 209). Tuttavia se non si distingue tra l’abuso della scienza e il valore della scienza in sé, si ha una reazione negativa rispetto all’automazione, perché si è concentrati sui mali della macchina senza riconoscerle un significato rivoluzionario, anche solo attraverso l’immaginazione. In realtà il problema sottostante che la tecnologia potrebbe risolvere è “una trasformazione qualitativa dei fondamentali rapporti dell’umanità sia con la produzione che con la sua riproduzione” (ib.). Ma perché il controllo della fertilità e dell’automazione abbia effetti positivi è necessaria

una nuova cultura basata su una radicale ridefinizione dei rapporti umani e del tempo libero per le masse: è cioè necessaria la distruzione immediata tanto del sistema di classe che della famiglia. Saremo al di là delle dispute su “chi porta il pane”: nessuno lo porterà a casa, perché nessuno “lavorerà”. (ib.)

Le macchine potrebbero quindi fare da perfetti ugualizzatori, abolendo il sistema di classe basato sullo sfruttamento della forza lavoro (p. 210)

Questa visione avveniristica diventa più radicale e più ingenua quando affronta le tecniche riproduttive su cui noi oggi abbiamo informazioni più precise ma anche più preoccupanti, per l’uso biopolitico che gli Stati potrebbero farne sia in senso razzistico sia nel senso di espropriare le donne del controllo dei propri desideri e della propria stessa sessualità (già fin troppo eterodiretta da un immaginario indotto). Infatti l’autrice enfatizza le potenzialità della moderna embriologia e stigmatizza tutti coloro che hanno in sospetto gli effetti liberatori della tecnologia perché, sostiene, “dobbiamo supporre flessibilità e buone intenzioni in coloro che lavorano alla trasformazione” (p. 213). La trasformazione radicale della società dovrebbe garantire “La ribellione delle donne alla tirannia della loro biologia riproduttiva con tutti i mezzi a disposizione, e l’estensione del compito di procreare e allevare i bambini alla società nel suo complesso, sia uomini che donne” (ib.).

In tempi come i nostri in cui una parte del femminismo esalta il materno e la sua funzione simbolica oltre che reale, questo testo sicuramente presenta un’aspra critica a tutti i  fondamenti immaginari  che  le  donne nella storia si sono date per giustificare la maternità e l’amore romantico. Quest’ultimo viene inteso come sudditanza ai desideri maschili ed è strettamente legato alla biologia femminile. Lo stesso erotismo è “lo spostamento di altri bisogni sociali e affettivi sul sesso” (p.158). Esso conduce alla “privatizzazione sessuale delle donne” (p. 159), causa prima delle nevrosi femminili legate all’aspetto fisico. Infatti le tecniche di comunicazione sono così capillari e amplificate, l’immagine è diventata così pervasiva e

ha così profondamente alterato persino i nostri rapporti con noi stessi, che anche gli uomini sono diventati oggetti, anche se non sono oggetti erotici. Le immagini diventano estensioni del Sé: diventa difficile distinguere la persona vera dalla sua più recente immagine, anzi, forse la Persona che sta sotto si è ormai dissolta” (p. 163-164).

L’analisi critica si volge dunque alla stessa società dello spettacolo fino ad azzerare lo stesso nucleo di identità maschile / femminile dissolta nell’implosione di immagini a cui tutti siamo sottoposti. La storia del tentativo di uscire da questa oggettivazione è ancora recente, come ancora attiva è la ricerca di spazi e tempi di soggettivazione individuale.

Scheda critica di Concetta Brigadeci
Studiosa di storia delle donne e di didattica della storia


[1] Donna Haraway, Manifesto Cyborg, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 26
[2] Rosi Braidotti, Madri, mostri e macchine, Roma, Manifestolibri, 1996.

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