
Titolo originale: A Room of One’s Own, Quentin Bell & Angelica Garnett, 1929.
L’immagine riproduce la copertina del manoscritto originale
Tante le edizioni italiane di Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé Milano, Mondadori, 1963, Il Saggiatore 1974, 1981, 1991; Torino, Einaudi, 1985; Roma, Newton Compton 1993.
Il riferimento per questa scheda: Milano, SE, 1991, traduzione di Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, con uno scritto di Marisa Bulgheroni, 143 p.
Il testo fu pubblicato per la prima volta il 24 ottobre 1929 e si basa su due conferenze tenute a Newnham e Girton, college femminili dell’Università di Cambridge, nel 1928
Nell’ottobre del 1928 infatti — subito dopo Al faro e Orlando[1] - Virginia Woolf fu invitata a tenere due conferenze alle studentesse del Newnahm e del Girton College di Cambridge, sul tema Le donne e il romanzo. Ne tornò stanca, un po’ perplessa e tuttavia stimolata a continuare. Perché quelle ragazze “affamate ma coraggiose” — come scrisse nel suo Diario[2] “intelligenti, avide, povere, destinate a diventare nugoli di maestre”, che pure le erano sembrate “non molto impressionate dall’età e dalla fama”, l’avevano caricata dell’urgenza di trasmettere e fissare ancora qualcosa che — a distanza di sessant’anni — continua a preoccuparci ogni volta che cerchiamo un filo di continuità con le giovani donne. E questo è solo il primo dei punti che ci legano a questo saggio. “Ho detto loro pacatamente di bere vino e di procurarsi una stanza tutta per sé”, commentò, rappresentando per immagini la necessità dell’agio e dell’autonomia: e lasciò questi due punti come elementi portanti, quando dalla rielaborazione delle due conferenze trasse questo saggio, ampliando e chiarendo un discorso che riguardava prima di tutto se stessa, poi tutte le donne che devono imparare a conoscere gli ostacoli della dipendenza economica e cultura le, se vogliono saltarli e dare libera voce a ciò che sentono e sanno. Così, se vorranno scrivere, non dovranno subire il destino della immaginaria sorella di Shakespeare, “cuore di poeta prigioniero e intrappolato nel corpo di una donna”, oppure “di qualche muta Jane Austen senza gloria, di qualche Emily Bronte che se ne sarà andata gemendo per le strade impazzita dalla tortura del proprio talento”. Dunque il saggio, concluso nel 1929, ebbe come titolo Una stanza tutta per sé e rese come sempre l’autrice in parte soddisfatta, in parte perplessa: “mi accuseranno di essere una femminista… non lo prenderanno sul serio… ma l’ho scritto con ardore e convinzione… ha dentro una vita inquieta … si sente l’animale inarcare la schiena e galoppare via”, commentò nel Diario con una immagine fantasiosa e felice come le tante che animano il saggio. Che infatti scalpita, scarta, s’impenna, sembra divagare e infrattarsi, ma sempre riemerge a correre sicuro verso la direzione prefissata. Ancora oggi per chi lo legge la prima volta, e ogni volta che si rilegge, si ripete il miracolo di una scrittura che trasmette la forza delle idee attraverso la leggiadra e bizzarra visività delle metafore, e attraverso questo apparente divagare del discorso parlato, preludio del percorso stilistico con cui Le tre ghinee, dieci anni dopo, trasmetterà la sua idea politica sul mondo e sulle donne. Le immagini non si possono riassumere, possiamo solo accennare alla suggestiva bellezza di alcune: lo strano gatto senza coda che attraversa lo spazio proibito e interrompe l’incantamento del pranzo, l’idea/ pesce che guizza nell’acqua della mente e le frasi che cascano stecchite, i cavoli e le prugne della povertà, le ombre di falena delle parole dette a metà, la fiaccola nella grotta della realtà, la giovane coppia che si riunisce nel taxi e la stanza che si trasforma da luogo di clausura a luogo di libera creatività femminile. Si può però, invece di evidenziare ed enucleare i temi, descrivere la coerente continuità del discorso.
Il filo forte del pensiero parte proprio dalla spiegazione del mutamento del titolo fissando fin dall’inizio il tema base nella forma della comunicazione parlata:
Ma, mi direte; noi le abbiamo chiesto di parlare sulle donne e il romanzo — che c’entra il fatto di avere una stanza tutta per sé?… una donna se deve scrivere romanzi deve avere soldi e una stanza per sé… farò del mio meglio per raccontarvi come sono giunta a questa opinion e, cioè il racconto dei due giorni precedenti a questo incontro. (p.13)
Sono due giorni tutti inventati, narrati per movimenti e associazioni di idee che avviano il corso del pensiero nell’immaginaria ma verosimile università maschile di Oxbridge, ricca di collegi, torri, cappelle, biblioteche e giardini. Qui la signora in visita si trova la via sbarrata da tre divieti, poiché una donna non può camminare sul prato, né entrare in biblioteca o in cappella, luoghi sacri ai professori della patriarcale istituzione, costruita nei secoli grazie a ininterrotti fiumi d’oro e d’argento profusi dalle arche dei re e dei nobili, dei mercanti e degli industriali. In compenso può essere invitata a un ottimo pranzo, dove cibi e vini raffinati e comode poltrone fanno scintillare la conversazione e simboleggiano la prosperità, la sicurezza e la allettante condiscendenza di uno dei due sessi, tanto quanto la cena sbrigativa e frugale nell’austero college femminile, costruito di recente grazie alla parsimoniosa fatica delle donne, evoca la povertà e l’insicurezza dell’altro. “Perché un sesso era così prospero e l’altro era così povero? e quale può essere l’effetto della povertà sul romanzo?” (p. 38) Cercando delle risposte sui libri si scopre che gli uomini hanno scritto migliaia di testi sulla condizione femminile discutendone con bella sicumera: tuttavia è curioso come — benché il mondo appartenga indiscutibilmente a loro — essi insistano con tanta rabbia sull’inferiorità delle donne. Il fatto è che — per aver fiducia in se stessi e nella propria superiorità — hanno bisogno di credere a questa inferiorità. Essa li raddoppia, soprattutto se le donne funzionano solo da specchio e rinunciano a dire la verità. Ma la libertà di pensare e di scrivere le cose come sono è concessa a una donna solo da quella indipendenza economica che per secoli non ha avuto, così come per secoli, nella grande letteratura di immaginazione scritta dagli uomini, la donna / personaggio “domina la vita dei re e dei conquistatori”, mentre nella vita reale era assente come autrice e “veniva rinchiusa, picchiata e mal trattata nella sua stanza”. Nessun genio può venir fuori in queste condizioni: ma una donna geniale, denudata e schernita nei suoi tentativi, si sfinisce a dimostrare di non essere uno scherzo di natura, si strugge nel risentimento e perde vitalità. Tuttavia nel ‘700 le donne hanno cominciato a guadagnare scrivendo: non più segno di bizzarria, dunque, “poiché il denaro conferisce dignità a ciò che è frivolo finché non è pagato”. Scrissero in tante (e non poche isolate) e aprirono la strada alle grandi autrici dell’Ottocento: le quali, costrette a lavorare nella stanza comune dove passavano tutti, scelsero il genere romanzo che meno risentiva delle continue interruzioni e consentiva loro di far tesoro dello studio dei caratteri e delle situazioni; alcune scrissero senza paura e senza protesta, come Jane Austen che adattò perfettamente il suo talento all’ambiente; altre con troppa indignazione, come Charlotte Bronte, “in conflitto col suo destino”; o autoescludendosi, come fece George Eliot negli stessi anni in cui da una vita “senza costrizioni né censure” uscivano i capolavori di Tolstoj. Poiché esiste un effetto del sesso sui romanzieri: l’integrità di un romanzo — la sua coerenza e verosimiglianza — può crollare o quando l’indignazione fa barcollare l’immaginazione o per troppo ossequio alla critica maschile: troppo aggressive o troppo concilianti, limite evitato solo da Jane Austen e da Emily Bronte “che scrissero come scrivono le donne, non come scrivono gli uomini e ignorarono i perpetui ammonimenti dell’eterno pedagogo: scrivi questo, pensa quello” (p.78). Battendo anche l’altro temibile ostacolo: il fatto che non avevano dietro di sé nessuna tradizione. “Perché essendo donne dobbiamo pensare attraverso le nostre madri” e i grandi scrittori “non hanno mai aiutato una donna a scrivere”. Anche per questo il romanzo — forma ancora abbastanza giovane e non cristallizzata dalla tradizione maschile — fu scelto dalle donne. Le quali in futuro troveranno anche il modo di onorare la loro differenza di scrittura scoprendo tempi e modi nuovi di adattare il libro al corpo: romanzi in cui le donne non vengano presentate soltanto in rapporto agli uomini — angeli o traviate — ma in rapporto di amore e di amicizia tra loro e narrino con differente forza creativa la vita non registrata e parole non dette o dette a metà.
Sarebbe mille volte un peccato se le donne scrivessero come gli uomini… forse l’educazione non dovrebbe sottolineare e accentuare le differenze, invece delle somiglianze? (p.59)
Impareranno anche a deridere — senza amarezza — le vanità dell’altro sesso, senza perdere tempo a difendersi e ad attaccare. Un futuro in cui le donne — ma anche gli uomini — possano scrivere in libertà e in pace mantenendo lo specifico del proprio sesso senza pensare ad esso né in termini di lagnanza né in termini di superiorità: una riconciliazione tra parte femminile e parte maschile nella mente androgina dell’artista che costituisca la massima forma della “integrità” perché la naturalezza garantirà la verità e l’immaginazione moltiplicata amplierà la visione del reale.
Qui Virginia chiude il racconto dei due giorni immaginari e torna al presente. E conclude il discorso rivolgendosi direttamente alle sue ascoltatrici con un tono deciso e commosso insieme: le giovani devono ricordare sempre che “la libertà intellettuale dipende da cose materiali. La poesia dipende dalla libertà intellettuale. E le donne sono sempre state povere…” (p.105). Ma guai se continueranno a procurarsi degli alibi all’insuccesso con la scusa della mancanza di opportunità perché grazie anche agli sforzi delle “oscure donne del passato … i mali cominciano a trovar rimedio: altrimenti non sareste qui questa sera”. Dunque, se vogliono animare il mondo di una vita più intensa non devono reclamare opportunità ma offrirla: devono offrire a quelle donne geniali del passato, che davvero non l’hanno avuta, “l’opportunità di tornare fra noi in carne e ossa” (p.133), imparando il libero coraggio di dire ciò che pensano: in questo modo potranno farle rinascere in noi e tra noi, anche per scrivere poesia. Gli effetti psicologici del condizionamento materiale, il pericolo dell’ossequio alla convenzione e all’omologazione, l’ipotesi di una integrità androgina fino all’invito a superare il lamento e la fase emancipatoria, passando dal “piacere di rompere al piacere di creare”: questi temi continuano a farci discutere fin dalla grande attenzione degli anni Settanta e a cercare in questo saggio — e in tutti gli altri di Virginia — esempi fra i più attuali di riflessione sul rapporto tra il sesso, la politica e l’arte.
Eleonora Chiti
Eleonora Chiti, lucchese, vive e lavora a Livorno. Insegnante di Liceo, si è occupata di didattica e aggiornamento, di critica letteraria e di saggistica, con un interesse specifico per il rapporto tra parola e immagine e per la scrittura delle donne. È parte attiva del Centro Donna livornese.
[1] V. Woolf, Gita al faro, Milano, Garzanti, 1974 (tit. or. To the Lighthouse, 1927);
Orlando, Milano, Garzanti, 1980 (tit. or. Orlando, 1928).
[2] V. Woolf, Diario di una scrittrice, Milano, Mondadori, 1980.