Pubblichiamo di seguito questo testo di Elisabetta Donini, ringraziando l’autrice, che lo ha scritto su invito di Giulia Maria Cavaletto per una Conferenza di Espanet a Forlì nel 2017 “Il Welfare e i perdenti della globalizzazione: le politiche sociali di fronte a nuove e vecchie disuguaglianze, inserito in particolare nella sessione n. 15: “Le disuguaglianze di genere in Italia, nella società e nelle politiche: gli effetti sulla salute”. L’articolo uscì poi il giorno 11dicembre 2017 nel sito http://libertadonne21sec.altervista.org/
Genere, medicina e protagonismo dei movimenti delle donne
“Genere” vs “prospettiva di genere”
Il genere in medicina: un termine più raffinato e complesso per catalogare le donne e gli uomini, il femminile e il maschile, o una categoria analitica per distinguere quali caratteristiche siano proiettate sulle une e sugli altri e interiorizzate da ciascun soggetto come costitutive della propria identità?
Proverò a rispondere a questa domanda seguendo un percorso storico, in modo da discutere da un lato di come è comparsa e si è via via trasformata la nozione di “genere” in medicina e dall’altro di come ne è cambiato il senso, una volta che è prevalso il problema di quali interessi fossero in gioco. Fu appunto in questa luce che, a mio parere, i movimenti delle donne furono protagonisti della “prospettiva di genere”, prima ancora di usare il termine nelle loro elaborazioni.
Lo spazio teorico e pratico in cui si incontrarono, confrontarono e spesso scontrarono i due approcci vide al centro il “corpo”: Franca Pizzini, in collaborazione con Lia Lombardi, scelse l’efficace titolo Corpo medico e corpo femminile per mettere a fuoco il “corpo a corpo” attraverso cui “l’esperienza umana e sociale” diventa letteralmente “incorporata” (Pizzini, Lombardi 1999, p. 9).
Mi soffermerò in particolare sugli anni ’70 del secolo scorso, quando gruppi di donne cominciarono ad agire per “riappropriarsi” (come allora appunto si diceva) del corpo, sottraendolo alle norme e ai limiti secolari se non millenari dettati dall’egemonia androcentrica e patriarcale, in vario modo pervasiva di tutte le società.
Anzi, la centralità del rapporto con il proprio corpo fu un pilastro della presa di coscienza che animò i percorsi di liberazione, all’insegna non solo del diritto, ma della volontà di autodeterminazione, struttura portante del neofemminismo. Richiamando alcuni testi di quel periodo mi riprometto di argomentare che riconoscersi nelle esperienze comuni vissute a partire dal corpo permise di porsi e percepirsi in un’ottica collettiva e di trovare in essa la forza necessaria per rendersi autonome. Come scrissero le donne del Boston Women’s Health Book Collective, riconsiderare con occhio critico le istituzioni mediche esistenti fu
un’esperienza politica fondamentale […] In quel momento abbiamo preso coscienza del nostro potere in quanto forza politica e sociale in grado di operare dei cambiamenti (Boston Women’s Health Book Collective 1971; trad. it. 1974, p.12).
Negli anni successivi, altre riflessioni si soffermarono sui rischi di rimanere imprigionate nelle costrizioni tradizionali della fisicità femminile, ma anche sulle potenzialità liberatorie che le donne sono in grado di mettere in campo a partire dal rapporto con il proprio corpo. Mi sembra molto significativo il brano di Adrienne Rich che riporto:
Non conosco alcuna donna – vergine, madre, lesbica, sposata, nubile – per la quale il suo corpo non sia un problema fondamentale: il suo confuso significato, la sua fertilità, i suoi desideri, la sua cosiddetta frigidità, il suo sanguinare, i suoi silenzi, i suoi cambiamenti e mutilazioni, le sue violenze e le sue fioriture. Oggi per la prima volta esiste la possibilità di modificare la nostra materialità in conoscenza e potere […] la nostra pelle freme di segnali; le nostre vite e le nostre morti sono inseparabili dalla libera espressione o dal blocco dei nostri corpi pensanti (Rich 1976; trad. it. 1977, p. 287).
Si innestò qui la profonda trasformazione associata al delinearsi della “prospettiva di genere”, locuzione la cui portata va molto al di là dell’interrogarsi su come questa nuova parola sia comparsa proprio in campo medico a metà degli anni ’50 del Novecento. Tracciata brevemente la storia di questo caso, per molti versi curioso, tornerò a ragionare su donne, genere, medicina in termini più esplicitamente politici, riferendomi alla soggettività dei movimenti che produssero cambiamenti radicali. Emergerà come nodo centrale la questione del punto di vista del femminismo (anzi, dei femminismi, nella loro grande diversificazione) sulla biologia e sul rapporto tra biologia e medicina, specie quando fu necessario misurarsi con impostazioni di tipo deterministico.
Genere in medicina: ambiguità di un esordio
Tutti i testi che ho potuto vedere citano un lavoro di John Money – psicologo e pediatra – insieme con la coppia di psichiatri Joan e John Hampson come la prima ricerca in cui comparve la parola “genere” al di là dell’ambito meramente linguistico-grammaticale. Lo studio in questione verteva su casi di intersessualità o di attribuzione incerta del sesso alla nascita; in tali casi comparivano contraddizioni tra la conformazione fisica – in particolare degli organi sessuali – e i comportamenti che la bambina o il bambino veniva educata/o a esprimere – quelli che vennero appunto chiamati “gender roles”, non riconducibili solamente a fattori biologici (Money et al. 1955).
Su queste basi venne proposto un insieme di raccomandazioni circa i trattamenti medici cui attenersi, agendo con interventi chirurgici quanto più possibile precoci per adattare i genitali al sesso assegnato, che si era a sua volta riflesso sul genere preso come riferimento dai genitori per allevare la bambina o il bambino nella prima infanzia. Tali “linee guida” raccolsero a lungo il consenso generale e vennero applicate da medici, endocrinologi, psicologi per misurarsi con i casi di intersessualità.
Per diversi decenni Money, da solo o in collaborazione con altre/i, continuò a studiare la questione e ad essere considerato il caposcuola cui rifarsi. In particolare, insieme con Anke A. Ehrhardt fornì uno sviluppo importante della teoria, asserendo che l’identità di genere può cambiare fino all’incirca all’età di 18 mesi (Money, Ehrhardt 1972). Come nei lavori precedenti i casi osservati erano veramente pochi
ma la teoria era stata accettata a causa del prestigio degli autori e della sua consonanza con le idee ad essa contemporanee circa il sesso, i bambini, la psicologia e la medicina (Kessler 1996, pp. 344–345; trad. mia).
Per documentare quale fosse il livello del consenso vennero intervistate/i sei medici (tre donne e tre uomini) esperte/i nel campo dell’intersessualità pediatrica: un genetista clinico, tre endocrinologi, uno psichiatra e un urologo. Nel corso dell’intervista un endocrinologo commentò: “credo che noi (medici) ci siamo formati all’interno delle teorie di Money” e un altro sostenne:
affrontiamo sempre il problema allo stesso modo e questo in larga misura è stato prescritto dal lavoro di John Money e Anke Ehrhrardt perché sono i soli – almeno nella letteratura medica – che abbiano pubblicato dati e linee guida (ibid., p. 345; trad. mia).
Sembra perciò sconcertante che subito dopo l’affermazione precedente questo stesso medico avesse osservato: “e io non so quanto [quella teoria] sia efficace” (ivi). Kessler concludeva su questo punto rilevando che in letteratura c’erano ben poche citazioni di dati in contrasto, nessuno dei medici intervistati ne faceva menzione e comunque la loro fiducia nella teoria non ne aveva risentito. Un simile commento fa sorgere molti dubbi sulla ‘scientificità’ della teoria di Money e di chi lavorava con lui.
Dagli anni ’60 in poi molti, tra cui Money stesso, avevano cominciato ad associare l’intersessualità e le discrepanze tra morfologia degli organi sessuali e identità di genere all’effetto degli ormoni a cui dapprima il feto e poi la/il neonata/o fossero stati eventualmente esposti in misura fuori del normale. Anzi, di qui ebbero origine altri modi per intervenire al fine di riplasmare il sesso, in particolare in presenza di quello che veniva chiamato tomboyism, termine usato per indicare le bambine con un comportamento “da maschiacci”.
Si deve a Barbara Fried (1982) una sintesi a mio parere molto efficace di come Money e Ehrhardt avevano studiato questa “devianza” prendendo in esame bambine che erano state esposte, ancora nel grembo della madre, a dosi superiori al normale di ormoni maschili e che manifestavano comportamenti oltre i limiti di ciò che viene considerato “naturale”. L’autrice proseguiva elaborando interessanti considerazioni sul lavoro di Money e Ehrhardt, per riflettere sul linguaggio e analizzare come la realtà, la sua percezione e la sua descrizione siano plasmate dalle relazioni tra sesso e identità di genere, quali possono essersi depositate appunto nel linguaggio.
Verso l’inizio degli anni ’80 le critiche andarono infittendosi, anche sul piano metodologico: controlli inadeguati, raccolte di dati su campioni troppo poco numerosi per essere significativi, presupposti non esplicitati, mancanza di attenzione per la possibilità di spiegazioni alternative (Fausto-Sterling 1985, pp. 136–137). Vi erano però altri punti deboli, ben più inquietanti; proprio a proposito delle ricerche di Money e Ehrhardt venne infatti rilevato che esse
non prendono in considerazione che gli intensi esami e interventi medici, chirurgici e psicologici cui le/i pazienti sono state/i sottoposte/i, tutti focalizzati sui loro genitali, possono avere influito sui loro atteggiamenti e comportamenti (Bleier 1984, p. 100; trad. mia).
Non solo: sotto alcuni aspetti le teorie e le pratiche discusse sopra implicavano
un paradosso: quegli stessi medici che si avvalevano di tecniche
per manipolare e trasformare i corpi dei bambini in modo da renderli conformi alla loro convinzione che il dimorfismo di genere è un portato della natura […] paradossalmente credono anche che l’identità di genere sia determinata in primo luogo da fattori sociali (Laslett et al. 1996, p. 12; trad. mia).
Ma è ancora più paradossale il fatto che studiosi disposti a considerare che vi sono casi limite in cui il genere è (ri)costruito, non riescano a vedere “che il genere è sempre costruito” (Kessler 1996, p. 362; trad. mia).
Quest’ultimo brano mi porta a staccarmi dal terreno su cui è comparso il “genere” in medicina, con tutte le ambiguità di cui ho discusso sopra: ruoli e identità di genere come socio-culturalmente costruiti oppure correlati alla determinazione medica di quale sia il sesso più adeguato da (ri)costruire nei casi incerti? E poi, perché incerti? Il presupposto delle ricerche di Money e della sua scuola è che tra femmine e maschi vi sia una dicotomia ineludibile, fondamento della “normalità” cui bisogna cercare di rendere adeguato ogni soggetto. Le critiche di metodo e di sostanza di cui ho riportato qualche esempio provenivano invece da ambienti femministi ed esprimevano un punto di vista molto diverso, cui non interessava considerare donne e uomini come oggettivamente sessuate/i, ma indagare i processi storici attraverso cui si plasma e si modifica continuamente la soggettività e la percezione di sé.
Dal sesso al genere, il nostro corpo
Le posizioni di cui desidero discutere nelle prossime pagine vennero assunte da donne intenzionate a costruire e affermare la propria volontà di autonomia e autodeterminazione. Tra gli esiti del loro percorso vi fu la messa a punto di una “prospettiva di genere”, senza per altro che nei primi anni venisse utilizzato il termine “genere”, così come era stato introdotto in campo medico. Anzi, qui mi interessa argomentare che si trattò di due percorsi separati e profondamente diversi: le ricerche di Money e di chi faceva capo alle sue teorie non ebbero alcun elemento in comune con i punti di vista proposti e sviluppati come frutto dei movimenti delle donne e del femminismo.
Tra questi va ricordato innanzi tutto il Boston Women’s Health Book Collective, che ho già citato in apertura riportando un brano dal loro libro Our Bodies, Ourselves (1971, riedito 1974, 1976), rimasto nella memoria come “enormemente influente” (“enormously influential”, Creager et al. 2001, p. 12). Il successo fu tale che esso ebbe rapide ristampe e traduzioni in varie lingue; in italiano uscì con il titolo Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne per le donne, forse più efficace dell’originale nel sottolineare la centralità delle donne come autrici e nello stesso tempo come destinatarie. D’altra parte, il titolo scelto dal Boston Collective poneva fortemente in risalto come il discorso riguardasse un “noi” definito dal mettere in comune il proprio situarsi e riconoscersi a partire da un corpo di donna. Anche in Italia l’interesse fu tale che dopo la prima edizione del 1974 altre ne seguirono così velocemente che nel 1977 comparve già la dodicesima, condotta sull’edizione americana del 1976, ed è questa che utilizzerò nelle prossime citazioni.
Ripensando alle dinamiche vissute allora nei movimenti, il testo riesce avvincente sin dalla prefazione, che racconta quanto la storia del libro fosse stata bella, lunga e piena di soddisfazioni; iniziata nel 1969 con un convegno di donne a Boston sul tema “Le donne e il loro corpo”, la vicenda proseguì con la decisione di continuare a incontrarsi:
All’inizio formammo un gruppo “medico”. Tutte noi avevamo provato lo stesso senso di frustrazione e di rabbia nei confronti dei medici accomodanti e paternalistici […]. A mano a mano che il lavoro procedeva, scoprivamo di essere perfettamente in grado di raccogliere, capire, valutare ogni tipo di informazione […] in uno spirito nuovo di cooperazione e non più di competizione. […] Fu un processo a catena che coinvolse un numero sempre maggiore di donne (Boston Collective 1971, riedito 1976; trad. it. 1977, p. 9).
Il cammino compiuto insieme ebbe un effetto “liberatorio” e le donne che ne erano protagoniste scoprirono che di lì poteva “incominciare il processo di liberazione di molte altre donne” (ibid., p. 11). Erano però anche consapevoli che, come “bianche della classe media” potevano descrivere solo ciò che era stata la vita per loro:
Ma sappiamo che altre donne, povere e di colore, hanno sofferto molto più di noi a causa della mancanza di informazioni e delle discriminazioni di cui parliamo in questo libro. In un certo senso, studiare la nostra condizione di donne dall’interno ci ha consentito di superare le barriere create dalla razza, dal colore della pelle, dal reddito e dalla classe sociale, e di provare un senso di identità con tutte le donne (ibid., p. 10).
Erano i tempi dell’entusiasmo ingenuo tipico dei momenti sorgivi; ma la gioia indistinta del “donna è bello” non avrebbe potuto reggere a lungo, in presenza delle disparità troppo profonde nelle esperienze e nelle condizioni che segnavano diversamente la vita di ciascuna. In breve, infatti, le voci delle femministe nere si levarono sempre più forti a rivendicare il proprio diritto a non essere definite da altre, ma a definirsi da sé.
Torniamo alla contentezza provata nel corso dell’impegno collettivo volto a produrre mutamenti radicali. Tra questi
il nostro lavoro ci consentì di dare un giudizio sulle istituzioni che dovevano occuparsi della nostra salute: ospedali, cliniche, scuole per medici e infermiere, uffici d’igiene, organismi mutualistici e così via. Alcune di noi analizzarono per la prima volta con occhio critico le istituzioni esistenti. Fu per noi un’esperienza politica fondamentale. […] In quel momento abbiamo preso coscienza del nostro potere in quanto forza politica e sociale in grado di operare dei cambiamenti (ibid., p. 12).
Questi passaggi segnarono un momento di crescita nella storia delle donne che ne furono protagoniste: portarono infatti a scrollarsi di dosso la biologia intesa come destino fino a rendersi conto di poter decidere in prima persona “se e quando volevamo dei figli” (ibid., p. 13). Così si sentirono in grado di affermare che “dal nostro corpo noi muoviamo verso il mondo”, per concludere “avremo più autonomia, più forza, saremo più complete” (ivi).
Uno degli aspetti fondamentali di quell’esperienza fu la dimensione collettiva in cui venne vissuta, dando nello stesso tempo valore alla storia di ciascuna; fu quindi importante
l’aver imparato a sentirci a nostro agio nel parlare a titolo personale e nell’essere noi stesse.
All’inizio avevamo paura di svelare segreti personali: ciascuna pensava di poter essere soggetto di derisione, rifiuto, incomprensione o pettegolezzo da parte delle altre. […] Avevamo paura di parlare apertamente dei nostri rapporti con gli uomini. I nostri timori verso le altre donne erano esagerati, poiché risultò che, come donne, avevamo molte cose in comune e che fra noi potevano esserci rapporti più autentici se comunicavamo in modi più diretti e sinceri (ibid., pp. 17–18).
Mi è parso opportuno riportare diversi brani della prefazione e anche quest’ultimo (tratto dal primo capitolo “Il senso della nostra identità in evoluzione”) perché essi mettono bene in evidenza sia quale significato le donne del Boston Collective intendessero attribuire al loro lavoro come atto politico sia quanto fosse stato decisivo riconoscersi come donne, con una soggettività comune in parte da scoprire, in parte da riplasmare facendo leva su di sé. In tale ottica il Boston Collective produsse un vero e proprio “manuale di medicina” di notevole ampiezza e insieme analitico, che potesse essere consultato da ogni donna “per cercare una risposta ai problemi e ai bisogni del suo corpo, ai suoi desideri, alle sue paure” (dalla quarta di copertina dell’edizione italiana 1977). I temi presi in esame vanno dall’anatomia e fisiologia della sessualità e della riproduzione ai rapporti sessuali, alla maternità, al parto e al puerperio, all’essere lesbiche, alla violenza carnale e all’autodifesa, all’aborto e al controllo delle nascite, alla menopausa, alle malattie più comuni, all’alimentazione, alle abitudini igieniche.
Alcuni capitoli contengono illustrazioni chiarificatrici; talvolta le questioni vengono rese più accessibili grazie a qualche esperienza documentata da testimonianze. Le informazioni su come è possibile agire nelle varie situazioni non sono però prescrittive: interessa piuttosto segnalare una gamma di possibilità, sollecitando a compiere scelte informate e consapevoli. E’ questo uno degli aspetti belli del libro: non soltanto si avverte di continuo che scaturisce da anni di dialoghi tra le autrici e con altre donne, ma che esse si pongono in un atteggiamento di interlocuzione anche rispetto alle lettrici, perché quello che desiderano ottenere non è certo una ricezione passiva bensì la prosecuzione dei confronti di esperienze.
L’edizione italiana che ho utilizzato aggiunse un capitolo in tre parti, il XVIII dal titolo “Le donne e l’assistenza sanitaria”, totalmente nuovo rispetto al volume originale americano. I due sistemi erano infatti profondamente diversi, ma il gruppo di lavoro “Per una medicina delle donne”, che già aveva collaborato alla traduzione di Our Bodies, Ourselves nell’assumersi la responsabilità dell’aggiunta (accettata per altro dalle donne di Boston) dichiarò di avere “cercato di mantenere lo spirito dello scritto originale e di tutto il libro” (ibid., p. 439).
Delle tre parti del capitolo la prima esamina il sistema italiano di assistenza sanitaria, mettendo in discussione il potere e il ruolo dei medici, la prevalenza di donne nel personale infermieristico e invece l’esiguità del numero di mediche, la questione dei profitti nell’assistenza medica. La seconda parte tratta delle scelte e dell’uso delle cure mediche, soffermandosi in particolare sul rapporto con medici e ginecologi e sulla disponibilità e sulle caratteristiche delle strutture: ambulatori, ospedali, cliniche private, consultori, farmaci, assistenza psichiatrica. Infine, la terza parte – “sempre nella prospettiva della riappropriazione del proprio corpo e della medicina” (ibid., p. 465) – è quella più esplicitamente fondata sulle donne come soggetti attivi: come lottare, come essere coscienti dei propri diritti, come mettersi in relazione con il movimento per la salute delle donne e con quello per il self-help.
Discuterò più avanti di altre posizioni legate alle vicende italiane; qui mi importava da un lato completare l’informazione su un volume che, come ho già richiamato, “esercitò un’influenza enorme” (Creager et al. eds. 2001, p. 12) e dall’altro lato desideravo mettere in evidenza quanto fosse centrale il carattere collettivo dei percorsi lungo cui gruppi di donne andavano sviluppando il loro senso di sé.
Per documentare ulteriormente l’importanza di questi aspetti, accennerò ora ad un altro studio, di parecchi anni più tardo, molto simile a Our Bodies, Ourselves nell’ottica e nella scelta dei temi: The Woman in the Body. A Cultural Analysis of Reproduction, dell’antropologa Emily Martin (1987). Benché scritto da un’unica autrice, anche questo volume rifletteva una pluralità di storie di vita; si basava infatti su un gruppo di interviste numeroso e diversificato: un insieme di 165 donne bianche e nere, della classe lavoratrice e di quelle media e alta, di diversi quartieri e comunità di Baltimora.
Come Martin precisava in apertura, alle spalle del suo lavoro vi era stata una svolta (che mi sentirei di definire una ‘rivoluzione culturale’, simile alle tante che nei decenni tra i ’60 gli ’80 stavano sovvertendo non soltanto gli studi e le visioni del mondo, ma le organizzazioni sociali). Grazie ad essa, molti antropologi e antropologhe cominciarono ad abbandonare le norme tradizionali della loro disciplina, spostandosi dalle indagini su popolazioni straniere ed esotiche alla presa di coscienza che
noi stesse/i avevamo un urgente bisogno di studi culturali sulle società occidentali […]. Correvamo infatti il rischio di trattare le usanze e le credenze straniere come bisognose di spiegazioni o traduzioni, mentre consideravamo le nostre auto-evidenti e – per quanto riguarda quelle nostre credenze che denotiamo come “scientifiche” – le consideravamo vere” (Martin 1987, p. 4; trad. mia).
Non mi soffermo sugli argomenti trattati in The Woman in the Body, perché molto vicini a quelli che erano stati oggetto del lavoro del Boston Collective: mestruazioni, menopausa, parto…, guardati però attraverso lenti più attente alla dimensione culturale delle metafore mediche, da un lato e ai punti di vista delle donne, dall’altro, filtrati attraverso la sensibilità attenta alle differenze di razza e di classe. Erano simili anche i fini perseguiti, improntati ad atteggiamenti fortemente politici, qui resi espliciti soprattutto nell’ultimo capitolo “Consciousness and ideology”; in esso veniva dato risalto al processo collettivo di lotte politiche e scientifiche da cui
appare chiaro che le donne sono spesso consapevoli della loro oppressione, ma sono in grado di forgiare visioni alternative di come vorrebbero che fosse il mondo. Se lo si considera come un programma di riforma sociale, le risposte delle donne alla scienza e all’ideologia non sono banali. Sono radicali, minacciose, implicherebbero una rivoluzione (ibid., p. 201; trad. mia).
C’è però un aspetto importante in cui i due testi – quello del Boston Collective e quello di Martin – differiscono. Come osservarono Creager et al. eds. (2001, p. 102), il secondo utilizzava sin dalle prime pagine la parola “gender” senza avvertire alcuna necessità di problematizzarla; nei dieci anni e più trascorsi dal lavoro di Boston tra i gruppi femministi si era infatti solidamente affermata la “prospettiva di genere”, associata ad un sicuro senso di sé e della propria soggettività di donne.
Dalla fine degli anni ’70 erano comparsi sempre più numerosi libri e articoli che avevano quella come ottica e insieme come tema portante della ricerca. Venne pubblicata una grande quantità di saggi dedicati ai vari binomi “Gender and…” su cui volta per volta si appuntava l’interesse: and Science, and Politics, and Anthropology, and Literature… Cito in particolare un’autrice, Evelyn Fox Keller, che divenne in breve tempo una tra le più autorevoli studiose di come il genere abbia agito e agisca nella scienza: il suo Gender and Science uscì già nel 1978, mentre la traduzione in italiano tardò sino al 1985 (cfr. Keller 1978).
Nel campo della storia – con riflessi importanti anche in altri – assunse rapidamente un ruolo di riferimento essenziale un articolo di Joan W. Scott (1986) dal titolo: Gender: A Useful Category of Historical Analysis in cui veniva adottata una definizione
che si basa su una connessione integrale tra due proposizioni: il genere è un elemento costitutivo delle relazioni sociali fondate su una cosciente differenza tra i sessi, e il genere è un fattore primario del manifestarsi dei rapporti di potere (Scott 1986; trad. it. 2013, p. 52).
Vorrei sottolineare – perché a mio parere pertinenti a quanto vado affermando circa il legame essenziale tra movimenti delle donne e prospettiva di genere – che la definizione riportata sopra implica che la polivalenza del termine “genere” si carichi di aspetti tanto simbolici quanto normativi, dettati – questi ultimi – dalle relazioni di potere attraverso cui la posizione che emerge come dominante “è dichiarata l’unica possibile” (ivi), mentre gli orientamenti alternativi sono rifiutati o repressi.
Bilanci di fine secolo
Tra gli ultimi anni del XX secolo e i primi del XXI furono molti i testi che facevano il punto sullo ‘stato dell’arte’ in tema di studi di genere, quale esso si presentava nei vari campi al momento del passaggio. In numerosi casi si trattò di raccolte di contributi di diverse studiose e mi soffermerò più avanti su alcuni di essi; preferisco però iniziare da un volume scritto da un’unica autrice: Has Feminism Changed Science? di Londa Schiebinger (1999). Scelgo questo come punto di partenza perché mi pare che esso esprima sin dal titolo in modo tanto netto quanto coraggioso l’intenzione di interrogare i mutamenti nelle scienze guardandole attraverso le lenti del femminismo, piuttosto che del genere. Sin dall’introduzione Schiebinger aveva ritenuto opportuno osservare che
Spesso le persone mettono insieme i termini “donne”, “genere”, “femmina”, “femminile” e “femminista”. Per altro questi termini hanno significati distinti. Una “donna” è uno specifico individuo; “genere” denota la relazione di potere tra i sessi e si riferisce agli uomini quanto alle donne; “femmina” designa il sesso biologico; “femminile” si riferisce alle idealizzazioni – in un tempo e uno spazio particolari – delle peculiarità e dei comportamenti delle donne, che possono essere adottati anche da uomini; e “femminista” definisce un punto di vista o una agenda politica (Schiebinger 1999, p. 8; trad. mia).
E’ appunto come vi avesse inciso il femminismo, e non il femminile, che l’autrice andò analizzando nei vari campi. Tra questi, la medicina: a partire da una ricostruzione della sua storia in età moderna, densa di disparità e squilibri, nel prendere in esame donne e uomini veniva messo in evidenza come il corpo maschile sia stato tradizionalmente preso a modello. Quello femminile ne costituiva una versione incompleta e imperfetta, e le uniche differenze venivano limitate agli organi sessuali e riproduttivi. Ancora nella seconda metà del ’900 venivano applicati alle donne i risultati di ricerche mediche condotte su uomini, anche se non erano stati adeguatamente studiati gli effetti su di esse delle diagnosi, della prevenzione e delle cure nei casi di malattie al di fuori della sfera riproduttiva.
A conferma degli squilibri tradizionali viene citato il caso di uno studio sui disturbi cardiovascolari e l’uso dell’aspirina che era stato condotto su 22071 medici maschi e 0 donne; così come riguardò 12866 uomini e 0 donne una sperimentazione che indagava sulle correlazioni tra pressione del sangue, fumo, tasso di colesterolo e disturbi cardiaci alle coronarie; o ancora lo Health Professionals Follow-up Study delle malattie di cuore esaminate in relazione al consumo di caffè si basò su 45589 uomini e 0 donne.
La situazione cambiò nei tardi anni ’80 che
videro nella medicina mainstream un grande risveglio verso l’occuparsi della salute delle donne. Le ricercatrici femministe criticarono vari studi estesi e influenti che avevano omesso le donne sia come oggetti sia come soggetti della ricerca medica (ibid., p. 113; trad. mia).
Sotto la spinta della Women’s Health Initiative, comparvero decisi cambiamenti nelle politiche sanitarie istituzionali; i programmi e i finanziamenti promossi dal NIH (National Institutes of Health) e vari interventi legislativi del Congresso adottarono una logica di parità; non mancarono per altro le critiche di quante denunciavano il rischio di una ghettizzazione di chi si occupava di medicina delle donne tale da far sorgere “un gruppo di ricercatrici e operatrici poco pagate, mentre il resto dei professionisti avrebbe continuato a praticare la medicina secondo il solito” (ibid., p. 120; trad. mia).
Schiebinger si poneva a questo punto la domanda “Che cosa portò al successo?” e come prima risposta commentava:
Un presupposto comune nella ricerca su genere e scienza è che l’ingresso delle donne cambierà la scienza […] ma questo è un assunto riduttivo e semplicistico. Quanto alla salute delle donne la ricerca medica negli Stati Uniti ha attraversato una metamorfosi: essa è diventata più sensibile ai bisogni delle donne e i centri di salute delle donne rappresentano un approccio nuovo. Oltre alla crescita del numero di donne nelle professioni mediche che cosa ha contribuito a questo successo? Le scienze mediche possono essere utilizzate come un modello per riformare altre scienze?
Il movimento per la salute delle donne era emerso negli anni ’60 e ’70 da gruppi locali e nazionali, tra cui il Boston Women’s Health Book Collective, il National Women’s Health Network e più tardi il Black Women’s Health Project (ibid., pp. 121–122; trad. mia).
Mi sono così ricongiunta all’affermazione che nelle pagine precedenti ho spesso richiamato come centrale: i cambiamenti decisivi nella medicina delle donne non nacquero dall’interno della professione, ma furono il portato di movimenti autonomi di donne e tra questi ricompare anche il Boston Collective, cui sopra ho dedicato diverse pagine. La crescita del numero di donne in medicina fu essa stessa una conseguenza – e non la causa – di questi processi.
Su tali basi Schiebinger giungeva a chiudere il capitolo dedicato alla medicina con una affermazione molto netta:
Le stesse forze che portarono le donne dentro le professioni permisero anche di mutare i temi di ricerca relativi alle donne. Anzi, non furono le donne, ma le femministe – tanto donne quanto uomini dentro e fuori la medicina – che crearono le condizioni per il successo delle riforme nella ricerca medica (ibid., p. 125; trad. mia).
Dunque, data la valenza “politica” che l’autrice associava al termine “femminismo” per distinguerlo da “donne” e “femminile” – come ho già avuto modo di sottolineare in precedenza – per Schiebinger i mutamenti in medicina, come in altre scienze, potevano scaturire soltanto da un mutamento politico dei ruoli sociali e dei rapporti di potere tra donne e uomini.
Prenderò ora sommariamente in considerazione alcune delle raccolte di saggi di varie autrici cui accennavo all’inizio di questo capitolo, soffermandomi in particolare sui contributi attinenti alla medicina. Di una di esse – Laslett et al. eds. 1996 – mi sono già avvalsa più volte a proposito della rilettura critica degli studi sull’intersessualità di Money e altre/i colleghe/i, condotta da Kessler (1990, riedito 1996); si noti che tutti i testi riportati nel volume erano stati pubblicati originariamente nella rivista «Signs: Journal of Women in Culture and Society».
Un altro saggio di interesse medico tra quelli selezionati in Laslett et al. eds. (1996) aveva come autrice Emily Martin, l’antropologa citata in precedenza per il suo libro The Woman in the Body. A Cultural Analysis of Reproduction, uscito nel 1987; l’articolo recava il titolo: The Egg and the Sperm: How Science has Constructed a Romance Based on Stereotypical Male-Female Roles(Martin 1991, riedito in Laslett et al. eds. 1996). Nell’introduzione al volume le curatrici osservavano che
Martin è incuriosita dal linguaggio usato dalle scienze biologiche e mediche per descrivere l’uovo e lo sperma nei manuali e negli articoli medici e trova che la rappresentazione che ne viene fatta tanto nel discorso comune quanto in quello scientifico si basa su stereotipi che svolgono un ruolo centrale nella nostra definizione culturale del maschile e del femminile (Laslett et al. eds. 1996, p. 12; trad. mia).
Secondo Martin, se quasi tutti i testi (asseriva anzi che a sua conoscenza ve ne era soltanto uno che faceva eccezione) insistevano ostinatamente a proiettare sui processi femminili una luce negativa era perché essi
esaltano la produzione di spermatozoi, perché avviene di continuo, dalla pubertà alla senescenza, mentre dipingono la produzione di uova come inferiore, perché cessa alla nascita. Questo fa sì che le femmine appaiano improduttive (Martin 1991; riedito 1996, p. 326; trad. mia).
Non solo, ma esse vengono anche stigmatizzate perché causa di “spreco”: all’interno della logica produttivistica cui si ispirava il modello dominante, al sistema riproduttivo femminile veniva imputato il fallimento di comportare l’espulsione di un gamete al mese per ogni ciclo mestruale, mentre il sistema maschile produce al giorno una quantità dell’ordine di almeno 100 milioni di spermatozoi.
Circa chi sia produttiva/o e chi sprechi, può essere utile fare un po’ di conti; assumendo che un uomo abbia mediamente una vita riproduttiva di 60 anni, una donna di 40 e che una donna o un uomo generino due o tre figli, risulta che delle circa 500 uova prodotte da una donna nel corso della vita ne risultano “sprecate” circa 200 per ogni bambina/o generata/o. Un uomo “spreca” invece più di un milione di milioni di spermatozoi. Quindi è misterioso che non si consideri uno spreco l’abbondanza produttiva maschile (ibid., pp. 326–327).
I primi indizi per risolvere il mistero si possono ricercare nel linguaggio: all’uovo viene attribuito un comportamento femminile e allo spermatozoo maschile; il primo viene visto come grosso e passivo, non si muove ma è “trasportato” passivamente, è “trascinato” o anche “va alla deriva” lungo le trombe di Falloppio.
In assoluto contrasto gli spermatozoi sono piccoli, veloci e invariabilmente attivi. Consegnano i loro geni all’uovo e ne attivano il programma di sviluppo […]. Le loro code sono forti e alimentate con efficienza dalla spinta dell’eiaculazione […] così possono attraversare l’involucro dell’uovo e penetrarlo (ibid., p. 327; trad. mia).
L’autrice aggiungeva qui una nota significativa: “Tutti i testi di biologia citati sopra usano la parola penetrare” che rimanda immediatamente agli stereotipi sociali più diffusi sul femminile e il maschile. Venivano poi presi in esame altri due modelli più recenti circa il processo di fecondazione.
Ma le nuove ricerche, lungi dal sottrarsi alle rappresentazioni stereotipate dell’uovo e degli spermatozoi, propongono semplicemente una replica in forme diverse dell’immaginario di genere implicato nei manuali (ibid., p. 330; trad. mia).
Non mi soffermo sui dettagli dei due modelli che ampliavano entrambi la gamma degli agenti coinvolti, attribuendo anche all’uovo un ruolo più attivo, pur se con varie differenze tra i due casi. Gli spermatozoi utilizzerebbero strumenti sia meccanici sia chimici per rompere la barriera dell’uovo, in un processo in cui i due gameti si attaccherebbero l’uno all’altro grazie a molecole adesive rilasciate da entrambi, fino all’estremo di una rappresentazione in cui l’uovo è così aggressivo da catturare gli spermatozoi.
Dall’immagine della donna passiva a quella della “femme fatale” di cui l’uomo è vittima? La donna ragno che inghiotte l’uomo? La madre divoratrice? Per queste vie si riproduceva l’interazione a doppio senso tra idee scientifiche e ordine sociale già manifestatasi tra la teoria di Darwin e il social-darwinismo:
Quello che vediamo ora è un’importazione simile delle idee culturali circa le donne passive e gli uomini eroici nelle “personalità” dei gameti. Di qui deriva che l’immaginario sociale viene trapiantato nella rappresentazione della natura in modo tale da creare solide basi per reimportare esattamente quello stesso immaginario come spiegazione naturale dei fenomeni sociali (ibid., p. 338; trad. mia).
Si pone dunque al femminismo una sfida evidente. Le metafore coinvolte nella descrizione dell’uovo e dello sperma non sono “morte”, come si assume convenzionalmente; esse sono piuttosto “dormienti” dentro il contenuto scientifico dei testi e tuttavia agiscono potentemente. Risvegliarle, prendendone coscienza, “migliorerà la nostra capacità di indagare e comprendere la natura […] e così saremo in grado di spogliarle del potere di naturalizzare le convenzioni sociali sul genere” (ibid., p. 339; trad. mia).
Passo ora alla raccolta curata da Creager et al. (2001), scaturita da un convegno del 1998 di cui mi pare interessante riportare il titolo: Science, Medicine and Technology in the Twentieth Century: What Difference Has Feminism Made?; esso contiene una domanda molto vicina a quella proposta da Schiebinger (1999): Has Feminism Changed Science? In entrambi i casi apparve decisivo mettere al centro il femminismo, come agente storico che ha trasformato i significati attribuiti a scienza, tecnologia e medicina, rendendo necessario ridisegnare i confini di questi campi (Creager et al. 2001, p. 3). Altrettanto importante è che poco dopo venisse precisato:
Focalizzandosi sui modi in cui il femminismo ha riordinato concettualmente i campi della scienza, tecnologia e medicina, non vogliamo perdere di vista il significato che i movimenti politici delle donne esercitano rispetto alla cultura. Sarebbe profondamente contradditorio che il femminismo potesse fiorire nell’accademia senza le donne (ivi; trad. mia).
Possiamo anzi affermare che avere adottato questa prospettiva – che pone in stretta relazione i cambiamenti culturali e i movimenti – costituisce una caratteristica comune a tutti i contributi riportati nella raccolta che sto esaminando e ne definisce la prospettiva generale. Per quanto riguarda la parte esplicitamente dedicata alla medicina, vi compaiono tre saggi: di Nelly Oudshoorn sul lungo disinteresse delle femministe per il corpo maschile, quasi esso fosse naturale; di Emily Martin, sulle forze sociali e culturali che plasmano la definizione psichiatrica di “mania”, di Evelyn Hammonds, sulle posizioni assunte da femministe circa un fenomeno così profondamente segnato dal genere qual è l’epidemia HIV/AIDS.
Benché collocato tra gli studi attinenti alla tecnologia, riguarda questioni mediche anche lo scritto di Ruth Schwartz Cowan sugli sviluppi della diagnosi prenatale e sui legami con le azioni del movimento delle donne per rendere possibile l’aborto. Non mancarono per altro dei controeffetti: una ulteriore medicalizzazione della gravidanza e l’uso che ne venne fatto per la selezione di sesso. In conclusione le curatrici della raccolta insistono nel sottolineare che le femministe attive nei campi considerati “hanno utilizzato punti di vista diversi, diverse forme di analisi e anche visioni mutevoli della differenza tra i sessi” (ibid., p. 16; trad. mia). Ma se dall’insieme degli studi riportati sono emerse le peculiarità dei contributi prodotti sin qui dalle femministe, se ne può trarre la speranza che ciò accadrà anche in futuro.
Il caso italiano
I cambiamenti principali avvennero anche in Italia negli anni ’70, lungo percorsi molto simili a quelli che ho descritto sopra per gli Stati Uniti. Si trattò di una decisa svolta, attraverso cui i movimenti delle donne divennero protagonisti di una ‘riappropriazione’ del corpo e di cui resta traccia nella memoria generale nello slogan ‘Io sono mia’. Ho già accennato a questo processo a proposito del volume Noi e il nostro corpo, quando ho dato risalto soprattutto a un aspetto: la dimensione collettiva del gruppo che si impegnò nella traduzione e nell’aggiornamento di Our Bodies, Ourselves, esso stesso scaturito dalla condivisione tra molte donne delle esperienze e delle riflessioni del Boston Collective. Se di quest’ultimo venne scritto che era stato “enormously influential” (Creager et al. 2001, p. 12), la sua versione italiana viene ricordata come “la bibbia” ancora in testimonianze recenti.
Il movimento delle donne non può essere considerato come un soggetto univoco; anzi, furono anni segnati da profonde tensioni tra correnti diverse, che possono essere sommariamente ricondotte a un’area riformista e ad una radicale. Tra di esse vi furono numerose contrapposizioni e anche spaccature, pur nella volontà comune di lavorare perché le donne fossero non più marginali, ma centrali, sulla scena politica, sociale e culturale.
Le questioni che prevalsero in quegli anni riguardavano il parto, l’aborto, gli anticoncezionali e venne individuata nei consultori la struttura adatta a costruire una medicina a misura di donna. Nacque di qui la legge 25 luglio 1975, n. 405 che istituiva appunto i “consultori familiari”; ne presenterò ora qualche aspetto rifacendomi a due testi legati alle differenti matrici – riformista e radicale – di cui scrivevo sopra. Alla prima tendenza apparteneva Il consultorio: la donna protagonista di Ivan Cavicchi, Grazia Mereu, Luciana Viviani (Cavicchi et al. 1976); in esso venne più volte citato “il movimento femminile di emancipazione” come “anello di congiunzione fra le donne e il consultorio” (ibid., p. 100), secondo una logica in cui “l’emancipazione” mi pare venisse però vista piuttosto come un processo guidato dall’esterno che come espressione di piena autonomia e autodeterminazione: “La chiave […] è quella di organizzare la partecipazione femminile” (ibid., pp. 100–101).
Dei consultori veniva dato un giudizio positivo perché apparivano come “strumento pubblico per la difesa e la conquista di una salute «totale» fisica, mentale e sessuale” (ibid., p. 21). Compariva anche qualche osservazione critica:
Per altro, occorre sempre ricordare che i consultori sono stati voluti da quelle donne che vedono in questo servizio sociale uno strumento per fare avanzare nuovi valori, quali la sessualità, la maternità e il lavoro.
Troppo sovente, ancora, la partecipazione delle donne ai grandi problemi sociali viene poi vanificata quando entrano in campo le strutture organizzate (ibid., p. 97).
Spesso i movimenti denunciarono questo come il pericolo che le donne venissero trasformate in ‘utenti’, non più soggetto portante dei cambiamenti. Quanto alla divaricazione dalle correnti radicali va notato che Cavicchi et al, prendevano da esse risolutamente le distanze, in particolare circa le lotte sulla questione dell’aborto.
Nell’affrontare il problema dell’aborto, il movimento di emancipazione femminile si era nettamente differenziato da quei gruppi femministi che identificavano la liberalizzazione dell’aborto con la liberazione delle donne da quello che essi chiamavano la «schiavitù materna» (ibid., p. 24).
Mi pare che queste righe dessero una lettura non soltanto riduttiva, ma distorta della pluralità delle posizioni femministe; del resto, lo studio di Cavicchi et al. era stato promosso dall’UDI (Unione donne italiane), organizzazione politicamente contigua al PCI (Partito comunista italiano) e al PSI (Partito socialista italiano), entrambi espressione della sinistra istituzionale.
Era invece molto diversa la rappresentazione che davano di sé i gruppi femministi, come appare ad esempio nel libro di Clara Jourdan Avanti un’altra. Esperienze dei consultori femministi(1976). Innanzi tutto, in esso il rapporto tra liberazione delle donne, medicina e femminismo veniva visto in termini ben più ampi:
La riappropriazione della medicina (come strumento) e del corpo (come fine) è la liberazione della donna, e il femminismo si riconosce sempre più in questa direzione (ibid., p. 18).
Come primo passo occorreva innanzi tutto “la conoscenza” e qui fungeva da guida l’esperienza del Boston Collective e del suo corrispondente italiano Noi e il nostro corpo.Cominciarono a formarsi i gruppi per la salute della donna che aprirono consultori ginecologici e si occuparono prevalentemente di anticoncezionali.
E’ un movimento che si sta sviluppando e diffondendo sempre più, e presenta un grande interesse in tutto il femminismo italiano. Al suo interno – e anche all’interno di ciascun gruppo – vi sono grosse differenze di posizione. Tuttavia la mancanza di omogeneità non è generalmente di ostacolo all’attività, perché l’analisi di partenza è comune a tutte: l’aspetto sessuale-riproduttivo è centrale nella condizione della donna (ibid., pp. 19–20).
Venivano poi prese in esame tre esperienze femministe diverse: il Centro per una medicina delle donne di Milano, il gruppo femminista per una medicina della donna di Roma, il Centro per la salute della donna di Padova; per ciascuno di essi venivano descritti i processi da cui erano nati, i programmi, le attività, le politiche – dall’autogestione alle autovisite – le strutture.
Passando invece ai “problemi dei consultori pubblici”, nati dalla legge istitutiva 28 luglio 1975, Jourdan osservava che “sono necessari e le donne per prime li richiedono” ed è importante che siano gratuiti e ben organizzati e che
Le utenti abbiano la possibilità di controllare il servizio dato perché risponda sempre meglio al loro interesse.
Ma altra cosa è il centro femminista.
La funzione del centro femminista non è di collaborare con lo stato per rendere più efficiente il servizio: ma è piuttosto quella di costruire qualcosa di nuovo nell’interesse delle donne, di iniziare un discorso politico femminista su come la donna, partendo dal problema della salute, cambia la propria situazione nella società.
O il centro della salute dà qualcosa che nessuno stato può dare, o altrimenti la sua possibilità di qualificarsi femminista è dovuta solo all’arretratezza delle strutture esistenti. (ibid., p. 68).
Come per gli anni ’70, anche verso fine ’900 il panorama italiano appariva per molti versi affine a quello degli Stati Uniti. Esaminando la medicalizzazione del parto, le tecnologie della riproduzione artificiale (TRA) e la menopausa, Franca Pizzini (1999) si rifaceva a un punto di vista dichiaratamente “di genere” per spiegare come gli “studi delle donne” abbiano “garantito visibilità ad aspetti e itinerari di azione che il mondo sociale ha reso opachi” (ibid., p. 9). Più avanti, Pizzini precisava di considerare il pensiero di genere come “costruito dalla consapevolezza del proprio carattere incorporato” (ibid., p. 16).
In particolare, a proposito delle TRA Pizzini sviluppava una analisi dell’“approccio femminista alla bioetica” sottolineandone il carattere plurale; pur lungo percorsi diversi esso è
un approccio peculiare, diretto insieme al concreto (il vissuto delle donne, la quotidianità dei loro bisogni) e al simbolico (il significato del corpo e il valore della maternità).
In questo modo si cerca anche di dare voce ai soggetti donne e di metterle in condizione di avanzare delle richieste, sollevare obiezioni, esprimere pareri tali da indirizzare le scelte pubbliche in materia di politiche sociali e attinenti alla riproduzione, dato che le donne con il loro corpo e la loro identità psichica, sono al centro del processo riproduttivo (ibid., p.127).
Prospettiva di genere, approccio femminista, consapevolezza di essere soggetti “incorporati”, rilettura non gerarchica delle differenze: mi paiono questi alcuni degli aspetti che hanno più nettamente qualificato il pensiero delle donne – o meglio delle femministe – negli ultimi decenni del XX secolo, anche nel campo della medicina.
Bibliografia
Bleier Ruth 1984. Science and Gender. A Critique of Biology and Its Theories on Women, Pergamon Press, New York.
Boston Women’s Health Book Collective 1971, riedito 1974, 1976. Our Bodies, Ourselves, Simon and Schuster, New York; trad. it. Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne per le donne, Feltrinelli, Milano 1974, XII edizione completamente rivista e ampliata 1977.
Cavicchi Ivan, Grazia Mereu, Luciana Viviani 1976. Il consultorio: la donna protagonista, Editori Riuniti, Roma.
Creager Angela N.H., Elizabeth Lunbeck, Londa Schiebinger eds. 2001. Feminism in Twentieth-Century Science, Technology and Medicine, The University of Chicago Press, Chicago and London.
Fausto-Sterling Anne 1985. Myths of Gender. Biological Theories about Woman and Man, BasicBooks, New York.
Fried Barbara in Ruth Hubbard et al. eds. 1982. Boys Will Be Boys Will Be Boys: The Language of Sex and Gender, pp. 47–69.
Elisabetta Donini
Femminista e pacifista, si è formata come fisica teorica; già docente presso l’Università di Lecce e poi di Torino, si è a lungo dedicata alla critica di genere della scienza. Impegnata da anni nell’opposizione femminista ai nazionalismi, al militarismo, al maschilismo del dominio patriarcale.